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sabato, Giugno 14, 2025

Chi vuole ancora gli insegnanti? – Una giornata di pensiero, passione e pedagogia alla Mediterranea

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Il 20 maggio 2025 si è svolto, presso l’Aula Magna “Quaroni” della Cittadella Universitaria dell’Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria, il seminario Chi vuole ancora gli insegnanti?, un evento che ha saputo coinvolgere, emozionare e far riflettere l’intera comunità accademica e scolastica calabrese. Iniziative come questa, promosse dal settore delle Scienze Umane del Dipartimento DIGIES, dimostrano quanto l’Ateneo reggino sia un autentico fiore all’occhiello, non solo per la città, ma per tutta la regione. Non è un caso se anche un piccolo comune come Taurianova, attraverso il suo Villaggio Sud Agrifest, ospita e valorizza la presenza della Mediterranea: un segno concreto di un’università sempre più attiva, presente, vicina al territorio e alle sue realtà educative.

Scrivere questo pezzo come dottoranda e come ex studentessa della Mediterranea è per me un grande onore. Non perché io sia di parte, ma perché questa università mi ha davvero formata a 360 gradi, sia come insegnante sia come persona. E oggi, da questo seminario, esco ancora una volta arricchita e profondamente motivata.

Ad aprire ufficialmente l’incontro, con i saluti istituzionali, è stato il professor Massimo Finocchiaro Castro, direttore del Dipartimento DIGIES, che ha sottolineato l’importanza di iniziative capaci di far dialogare accademia, scuola e territorio, in un tempo in cui la formazione degli insegnanti rappresenta una priorità culturale e politica.

A dare avvio ai lavori è stata la professoressa Alessandra Priore, coordinatrice del Centro di Ateneo TAL – Teachingand Active Learning, nonché del Corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria, che ha sottolineato con forza la necessità di restituire all’educazione la centralità che le spetta, riconoscendola come bene comune, valore pubblico e responsabilità condivisa tra cittadini, docenti, dirigenti, genitori e decisori politici. In un’epoca di cambiamenti strutturali e disorientamenti diffusi, la scuola – ha affermato – non può più essere il luogo di un tempo: va ripensata nella sua azione pedagogica, ridefinita nelle sue coordinate. Eppure, ci sono dei punti fermi. Il primo: la scuola deve essere meno orientata al risultato e più vissuta come cammino, fatto di esperienze complesse, a volte facili e altre volte difficili. Il secondo: il desiderio di conoscenza, che gli insegnanti devono promuovere negli alunni e con gli alunni, in un orizzonte di resistenza creativa al principio della tecnica. Non sono le metodologie a funzionare in sé, ma sono le relazioni a far funzionare le metodologie. E ancora: chiedersi di cosa hanno davvero bisogno gli alunni, restituendo senso alla loro esperienza scolastica. Lo ricorda anche Philippe Meirieu, professore emerito di Scienze dell’educazione presso l’Université Lumière Lyon 2, nel suo omonimo testo Chi vuole ancora gli insegnanti?: gli insegnanti hanno un compito antropologico, quello di aiutare i giovani a crescere in umanità. Per dirla con Biesta, si tratta di “accendere in ogni essere umano il desiderio di voler esistere nel e con il mondo, ma in modo adulto, come soggetto”.

Ha dato ulteriore forza al messaggio iniziale l’intervento della professoressa Gabriella Agrusti, presidente della SIPED – Società Italiana di Pedagogia, che ha ricordato come “non possiamo più permetterci una pedagogia disincarnata, lontana dai contesti reali e dalle persone”. Ha parlato della necessità di un approccio che tenga insieme ricerca, formazione e trasformazione sociale. Ha affermato che “il sapere pedagogico ha una responsabilità pubblica e politica, perché agisce direttamente sull’umano, sulle possibilità di crescita e di giustizia nei contesti educativi”. Il suo intervento ha ribadito che educare è oggi un atto di coraggio, e che gli insegnanti devono essere messi nelle condizioni di agire con consapevolezza critica e con strumenti culturali adeguati.

In questo contesto si colloca la nascita del nuovo Laboratorio di ricerca e formazione sulle pedagogie attive, presentato dalla professoressa Priore insieme al professore Valerio Ferro Allodola, ricercatore di Storia della Pedagogia e dell’Educazione presso l’Università Mediterranea. Un progetto ambizioso, che nasce da un percorso ben definito, avviato proprio grazie alla collaborazione con il professore Enrico Bottero, già dirigente scolastico, pedagogista e studioso di Storia e Pedagogia della scuola, e che ha coinvolto un gruppo selezionato di studenti in esperienze formative di alto livello, come il laboratorio tenutosi a Locri con i maestri francesi della scuola attiva. Dieci studenti della Mediterranea vi hanno preso parte, producendo materiali concreti e riflettendo sull’importanza dell’attivismo pedagogico. Da qui è maturata l’idea di fondare un laboratorio che fosse non solo centro di ricerca e sperimentazione, ma anche luogo di formazione aperto a tutti gli insegnanti, di ogni ordine e grado, e al territorio tutto. Un laboratorio che, nelle parole del professor Ferro Allodola «vuole essere un punto di riferimento per la Calabria e non solo, capace di attivare progettualità nazionali e internazionali, e di far dialogare concretamente scuola, università e società».

A sostenere fortemente il laboratorio c’è il già citato professor Philippe Meirieu, figura di riferimento per la ricerca pedagogica internazionale, che ha offerto un intervento appassionato, rivolto con empatia al nostro territorio e alle sue fragilità. Ha espresso preoccupazione per la regressione educativa in atto e per l’avanzare di forme di populismo che svuotano l’istruzione del suo significato emancipativo. Ha ricordato Paulo Freire, sottolineando come l’educazione sia uno dei pochi strumenti reali di progresso della società. E ha ribadito che, anche in tempi difficili, gli insegnanti devono resistere senza scoraggiarsi, ritrovare fiducia, agire localmente, coinvolgere le famiglie, far sentire la propria voce di cittadini. «L’emancipazione – ha detto – è permettere a ciascuno di farsi opera di sé stesso. Bisogna offrire agli studenti la possibilità di agire con la propria testa e di cooperare, vivere il collettivo, costruire solidarietà. Questo è ciò che dobbiamo realizzare ogni giorno nelle nostre classi con i metodi attivi».

Il professore Enrico Bottero ha proposto un’analisi lucida e critica dell’attivismo pedagogico, ricordando il legame con figure come Francesco De Bartolomeis e la tradizione della scuola attiva italiana nel secondo dopoguerra. «Le pedagogie attive – ha affermato – hanno vinto sul piano teorico, ma perso su quello politico». Oggi si corre il rischio che i loro principi diventino semplici luoghi comuni, in una società sempre più individualizzata. L’enfasi eccessiva sulla personalizzazione, sulla categorizzazione (si pensi al proliferare delle “plusdotazioni” o ai “disturbi”) può tradursi in esclusione e marginalizzazione, non in vera emancipazione. Ha ricordato quattro principi fondamentali dell’attivismo: il metodo attivo, il partire dal vissuto dell’allievo, l’individualizzazione intesa come attenzione alle differenze, e l’autorità non direttiva ma autorizzante. Ha concluso con un invito: «preparare il terreno, costruire con pazienza il cambiamento educativo, senza saltare le tappe».

La professoressa Antonia Cunti, ordinaria di Pedagogia generale e sociale presso l’Università degli Studi di Napoli Parthenope, ha posto l’accento sulla qualità delle relazioni educative e sulla centralità della dimensione emotiva. Ha evidenziato come la noia, la demotivazione, l’estraneità agli apprendimenti, così come la tendenza a relazioni competitive e non basate sulla fiducia nell’altro, siano segnali chiari di un malessere profondo che coinvolge studenti e docenti. «Le competenze emotive – ha detto – non sono accessorie, ma essenziali. È necessario imparare a leggere la trama emotiva delle classi, a riflettere su se stessi, sull’altro, sul legame. Solo così si può costruire una professionalità docente capace di vedere i legami tra il cognitivo, l’emotivo e l’operativo».

Il professore Fabrizio Manuel Sirignano, ordinario di Pedagogia generale e sociale presso l’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli, ha rilanciato la riflessione sulla crisi dell’educazione come crisi anche politica, sociale e culturale. Sostiene che la crisi del discorso educativo vadainterpretata nella cornice più ampia dei nessi tra pedagogia e politica. La scuola non può più essere pensata solo come luogo di trasmissione di contenuti: è anche spazio civico, palestra di cittadinanza, laboratorio di pensiero critico. La pedagogia, ha sottolineato, nasce nella Grecia delle poleiscome disciplina politica, e tale deve tornare ad essere. Ha ricordato la grande pedagogista Elisa Frauenfelder e il suo invito a riannodare il nesso tra educazione e formazione civica.

Nel corso della tavola rotonda, i dirigenti scolastici hanno sottolineato con forza il valore dell’accoglienza e dell’autenticità, invitando gli insegnanti a restare se stessi, ad avere coraggio, a non lasciarsi schiacciare dalla logica della performance. Un messaggio importante, moderato dalla professoressa Marianna Capo, ricercatrice in Pedagogia generale e sociale, e dal professor Ferro Allodola, che hanno saputo mettere in dialogo saperi teorici ed esperienze concrete, ed anche creare un ponte tra università e mondo della scuola.

A chiudere i lavori, la professoressa Enza Caracciolo La Grotteria, professoressa associata di Diritto Amministrativo e vicedirettrice del Dipartimento DIGIES, ha posto una domanda ulteriore, cruciale: «che insegnanti vogliamo?». La sua risposta: «insegnanti che vogliano bene e che vogliano il bene, che amino i propri studenti, che stimolino la motivazione ad apprendere come forma di esercizio del diritto all’istruzione, e quindi alla libertà».

Quella che si è svolta il 20 maggio non è stata solo una giornata di studi, ma un’esperienza formativa e trasformativa. Un segno di speranza e una promessa: che da Reggio Calabria, dal cuore del Mediterraneo, possa continuare a irradiarsi un’idea di scuola viva, democratica, umana. E, lasciatemelo dire, anche profondamente calabrese.

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